Di Alberto Latorre

11) DAD, RISPECCHIAMENTO E ORDINE NATURALE DELLE COSE
Capitolo a parte merita la DAD. Non mi soffermo sugli aspetti legati alla qualità dell’apprendimento e della didattica, aspetti che già di per sé acclarano, se mai ce ne fosse bisogno, il fallimento, addirittura il danno, di tale modalità. Quanto meno la sua inutilità.
Tacerò anche sul suo uso strumentale da parte del Governo, del Ministero e più in generale di tutte le istituzioni, a partire delle Regioni (Puglia e Campania su tutte), che hanno competenza sulla scuola e l’università. DAD che viene usata come foglia di fico per nascondere i mancati investimenti sulla scuola (edifici, aule, trasporti, docenti) e come strumento vessatorio per costringere più o meno indirettamente alla vaccinazione.
Mi limiterò – per così dire – a ciò che ho osservato in questi due anni in primis nel mio lavoro con i genitori e poi anche nella mia esperienza di papà di un bambino di 9 anni (che ha iniziato la DAD quando si trovava in prima elementare e che oggi frequenta la classe terza) e all’impatto sulla costituzione dell’identità delle giovani generazioni nonché sul loro benessere psico-fisico.
DAD e virtualizzazione delle relazioni
Un primo elemento da cui partire per esaminare l’impatto della DAD sulla crescita delle giovani generazioni parte dal fatto che ciò che si trova nel mondo durante la propria infanzia e adolescenza, o viene inventato e costruito in tale lasso di tempo, appartiene all’ordine naturale delle cose. La televisione, l’automobile c’erano già quando la nostra generazione è venuta al mondo, come lo erano (e lo sono) gli alberi e le altre persone. Non ci si chiede istintivamente come fosse la vita prima dell’automobile, come non ci si chiede come fosse la vita prima degli alberi.
Ciò che esiste nei primi 15 anni di vita è naturale, è normale come è normale e naturale la propria esistenza. Parafrasando Merleau-Ponty, è incrostato nella carne del mondo come lo siamo noi.
Pertanto la DAD (come per altro mascherine, distanziamento sociale, vaccini, esclusioni, ricatti) e i meta-apprendimenti che veicola, soprattutto per quei bambini che hanno iniziato la scuola in questi due anni, appartengono all’ordine naturale delle cose.
Ma che cosa sono i meta-apprendimenti o meta-insegnamenti?
Sono ciò che si insegna o si impara mentre si insegna o si impara qualcosa. Faccio un esempio molto semplice. Se dico urlando a mio figlio di smettere di urlare, gli sto dando due insegnamenti: il primo che deve smettere di urlare, il secondo e più importante è che per far smettere gli altri di urlare bisogna urlare.
Cosa stanno dunque meta-imparando i nostri figli dalla DAD? Proviamo a mettere in ordine la complessità.
Primo, che un dispositivo e uno schermo sono il mezzo per relazionarsi con il mondo, anche con il sapere. Il sapere e il mondo si possono conoscere attraverso un dispositivo.
Secondo, che per entrare in relazione con il mondo e con gli altri devi essere connesso a un dispositivo, ovvero che per stare in relazione devi possedere e utilizzare un medium, un mezzo, che non è sufficiente il tuo essere persona[26]. Essere una persona in carne e ossa che si cimenta nelle relazioni con tutto ciò che questo comporta in termini di fatica, talora di litigi, di presenza, non è sufficiente, anzi è addirittura inutile.
Terzo, la DAD rafforza la percezione che l’apprendimento, più che un’esperienza di ricerca personale e curiosità fatta di esplorazione, richiede una postura passiva. Si ricevono informazioni vere da una persona che parla da uno schermo: oggi è l’insegnante, domani sarà il giornalista o il politico che appare in TV.
La DAD ha amplificato gli effetti avversi della didattica frontale, di fatto quasi annullando la possibilità di interagire con gli altri e con l’insegnante.
Sono noti dai tempi di Marcuse e Popper gli effetti di indottrinamento della televisione, la sua postura dittatoriale e la sua natura autoritaria, in quanto è priva della possibilità dialogica, e di conseguenza la sua valenza oracolare (il famoso “lo hanno detto in TV”).
Ciò che la televisione dice è vero per forza, proprio perché – a meno che non si sia consapevoli e si disponga di strumenti atti alla decodifica di questi meccanismi – pone gli spettatori in un atteggiamento di ascolto passivo, acritico. A maggior ragione, se si è bambini e se anche le conoscenze scolastiche si sono acquisite tramite uno schermo.
Qualcuno obietterà che anche in DAD si può intervenire e partecipare, ma non è la stessa cosa che in presenza. E non servono tanti esempi per dimostrarlo, chiunque abbia partecipato in questi due anni a corsi di formazione a distanza si rende immediatamente conto di cosa sto dicendo. Il relatore o docente che sia spesso non vede l’icona della mano alzata sulla piattaforma. Quando condivide il proprio schermo, spesso non riesce più a vedere tutti i ragazzi (o partecipanti che siano) soprattutto se numerosi. Non può dare agli alunni il rispecchiamento di cui ho parlato sopra con il proprio sguardo. In molti casi non riesce a catturare la loro attenzione. Gli alunni, dal canto loro, per disinteresse o timore di disturbare non intervengono.
Quarto. Quale rispecchiamento comunica ai bambini e agli adolescenti lo schermo della DAD? Fondamentalmente rimanda un’immagine parziale, limitata, inquadrata, appiattita, senza voce, di sé e degli altri.
Con la DAD si perde la profondità dei corpi e con essa la profondità dell’esistenza e dell’essere umani. Si perde la tridimensionalità dell’esistenza che è fatta di spazio, di distanza, finanche di odori, dagli sguardi che si incrociano. Dai capelli di una compagna o di un compagno. Di corpi che si stiracchiano, di mani che si alzano.
Con la DAD si perde l’eco dell’esistenza che è data dal bisbiglio del compagno di classe che ti sussurra sottovoce qualcosa mentre l’insegnante spiega, da un suo sospiro, dal rumore della seggiola che si sposta, dal fruscio della penna che scrive su un foglio, dal ticchettio delle dita sul banco.
La DAD amplifica e radicalizza quella virtualizzazione dell’esistenza cominciata molti anni fa con videogiochi e chat, andando a occupare, o meglio cancellare, uno degli ultimi spazi rimasti, quello della scuola.
Al di là dello sforzo fisico e cognitivo innaturale, la DAD richiede uno sforzo emotivo e psicologico andando anch’essa, tramite il rispecchiamento, a ridefinire la natura umana. Non si è più persone in relazione con altre persone, ma persone in relazione con un dispositivo. Il pc e lo schermo di un computer mi rispecchiano (ancor prima che nello sguardo altrui, posso vedermi in un riquadro del mio schermo) appiattendomi, incorniciandomi, silenziandomi. E mi mostra agli altri e io mi vedo mostrato agli altri in questa dimensione[27].
Taccio di quelle situazioni di didattica a distanza mista in presenza (la cosiddetta DDI, Didattica Digitale Integrata), in cui l’insegnante proietta sullo schermo della LIM (Lavagna Interattiva Multimedia) il viso dei bambini o degli adolescenti che si trovano in DAD davanti al resto della classe in presenza, senza che i primi abbiano la possibilità di vedere i propri compagni in classe. In questo caso, mancando la reciprocità degli sguardi si finisce ancor più per essere oggetto passivo dello sguardo altrui e pertanto a essere ridotti a oggetti.
DAD e DDI privando l’esperienza relazionale della profondità dei corpi e dell’eco dell’esistenza appiattiscono le persone rendendole immagini, oggetti.
E le immagini e gli oggetti non soffrono. Gli oggetti e le immagini non hanno sentimenti. Gli oggetti si usano e quando non servono più, si buttano e si cambiano. Le immagini si guardano e quando si è stufi si passa oltre, basta strisciare il dito sullo schermo del cellulare. Quando mi sono stufato di giocare con un certo avatar, ne scelgo un altro.
Certo anche le amicizie si rompono e se ne fanno delle nuove, ma non è così facile, né romperle né farne delle nuove. E quando lo si fa, in qualche misura si soffre e si vede la sofferenza.
Non è un caso che la comunicazione dei ragazzi si sia sempre più spostata sulle chat. Rotture di amicizie e fidanzamenti sono comunicate tramite messaggi scritti (talora vocali) su WhatsApp. Dire a una persona, guardandola negli occhi, sentendo il suo respiro, che si tronca un’amicizia o che la si lascia ha un peso diverso. Non è così facile da gestire.
Avvicinarsi a un proprio coetaneo per entrare in relazione non è così semplice.
La DAD allora – come dicevo – rischia di amplificare e radicalizzare tale virtualizzazione delle relazioni, addirittura legittimandola e giustificandola, letteralmente facendola diventare “norma”, “legge” (da legittimare) delle relazioni umane e rendendola “giusta”.
Essere nascosti allo sguardo altrui e DaD
L’altra condizione disumanizzante provocata dalla DAD è quella opposta a quella di essere esposti allo sguardo altrui, ovvero quella di essere nascosti allo sguardo altrui, o perché il pc da cui ci si collega è sprovvisto di webcam (o perché ha un malfunzionamento) o perché la piattaforma che si utilizza o la modalità di condivisione dello schermo del docente non contiene simultaneamente i riquadri di tutti i partecipanti.
Non poter essere visti o sentiti equivale di fatto a non esistere. Per ricordare quanto sia importante essere visti, basti pensare al bisogno di ricevere attenzioni da parte degli insegnanti (nonché dei compagni) e che – per chi ha meno abilità e competenze scolastiche – spesso si traduce nella possibilità di disturbare.
Contrariamente a quanto solitamente si è portati a credere, disturbare durante la lezione è tutto tranne che la volontà di non partecipare. O meglio, mi spiego. Disturbare – che è diverso dal distrarsi – comunica in maniera disfunzionale un desiderio e un bisogno tuttavia sani, ovvero quelli di essere in qualche modo incluso. Al limite ricevendo anche un richiamo, che dal punto di vista comunicativo è una forma di attenzione e di inclusione.
Con la DAD l’insegnante perde la possibilità di coinvolgere sia coloro che si distraggono (perché non hanno voglia di partecipare, non sono interessati, si annoiano), sia coloro che cercano di essere inclusi disturbando. Ma soprattutto chi invece per motivi diversi cerca di non essere visto, di isolarsi, perché ha timore dello sguardo altrui, fa fatica a entrare in relazione con gli altri. Basta spegnere la webcam o semplicemente non collegarsi.
Marinare la scuola, “fare sega” – come si dice nel gergo giovanile a seconda della regione italiana – ovvero saltare scuola è un po’ più complesso quando si è in presenza. Richiede uno sforzo, una fatica. Non collegarsi la mattina al pc è relativamente più semplice. Meno rischioso e problematico, anche nelle eventuali conseguenze con i genitori.
Non a caso, gli alunni che meglio hanno vissuto la DAD sono quelli che faticano nelle relazioni con i compagni, soprattutto coloro che erano vittime di bullismo. Essa ha permesso loro infatti di evitare la fatica di stare con gli altri, le piccole e grandi frustrazioni che le relazioni comportano, nonché, per le vittime, di essere bullizzate.
La DAD ha contribuito in maniera rilevante, insieme ai fattori già sopra descritti e al distanziamento sociale di cui parlerò di seguito, all’esplosione del fenomeno dei cosiddetti hikikomori, sostantivo giapponese che identifica quegli adolescenti che vivono di fatto rinchiusi nella propria camera e dalla quale non escono nemmeno, in alcuni casi, per mangiare o addirittura per espletare i bisogni fisiologici.
DaD e hikikomori
Gli hikikomori sono ragazzi e ragazze per lo più adolescenti che si rinchiudono della propria camera e che mantengono i contatti con il mondo esterno tramite social e dispositivi.
Le motivazioni che portano a questo tipo di isolamento autoimposto sono di varia natura, ma fondamentalmente rientrano in questo spettro di motivazioni.
La prima motivazione che porta a rinchiudersi è la percezione che il mondo al di fuori alla propria camera – in questa percezione in molti casi rientrano anche i propri famigliari – sia fondamentalmente un luogo pericoloso.
Le motivazioni di questa percezione – fondate o infondate che siano – sono molteplici. In molti casi è il timore di subire una qualche forma di violenza, spesso questo timore è la conseguenza di un’esperienza di bullismo subito o a cui si è assistito e che non è stata elaborata. Oppure di umiliazioni, giudizi pesanti subiti dagli adulti – a partire dai propri genitori o insegnanti – o dal gruppo dei pari, tanto in generale, quanto magari per una peculiarità caratteriale o fisica.
In termini più generali gli altri sono percepiti come un potenziale pericolo reale o presunto per se stessi e per il proprio Sé.
Lo sguardo dell’altro è percepito come un pericolo per la propria integrità psichica: è come se si percepisse che lo sguardo altrui rende oggetti e ci si sentisse scotomizzati nella propria integrità, da un lato frammentati, dall’altro ridotti a una parte fisica del proprio corpo che si percepisce come non apprezzata dagli altri, oppure oggetto di manifesta derisione.
Davanti a questo vissuto di oggettivazione e di scotomizzazione l’adolescente, che ha bisogno di uno sguardo viceversa inclusivo di sé e del Sé, decide di sottrarsi.
I genitori dal canto loro, preoccupati dalla situazione, finiscono involontariamente per colludere con i figli portando loro da mangiare in camera (spesso lasciando il pasto in terra fuori dalla porta). Di fatto, non sapendo cosa e come fare non intervengono perché la situazione è preoccupante confermando pertanto la percezione di pericolo, oppure si arrabbiano, spronano, ma anche in questo caso rafforzando paradossalmente l’idea di inadeguatezza e di pericolo.
Una seconda motivazione è legata al rispecchiamento che ne deriva. Lo sguardo altrui non tanto e non solo è pericoloso, ma rimanda un’idea intrinseca di pericolo. È come se, guardando gli altri, l’adolescente sentisse di essere fuori luogo, sbagliato, addirittura pericoloso lui stesso per gli altri.
Basti pensare alla narrazione di questi ultimi mesi: gli adolescenti sono potenziali veicoli di contagio. Non si ammalano, non muoiono, ma fanno ammalare e fanno morire.
Onde evitare di portarsi addosso il peso di tale responsabilità e colpa, molti adolescenti hanno deciso di sottrarsi alla vita sociale.
Queste due motivazioni principali si declinano inoltre come difficoltà a entrare in relazione con gli altri, come un senso di inutilità rispetto a se stessi e come il fatto che il mondo fuori non abbia niente di interessante da proporre.
Per paura di venire feriti o di ferire gli altri, e più in generale per paura di morire, gli hikikomori hanno scelto di non vivere.
Il che equivale ad aver paura di vivere, perché la vita è fatta di ferite e più in generale di morte.
Questi due anni di emergenza, contrassegnata da lockdown, quarantene, isolamenti, DAD, ricatti, discriminazioni, hanno amplificato ed esasperato situazioni di disagio mentre altre ne hanno fatte emergere.
La DAD rappresenta il sigillo di questa autoreclusione. L’apogeo del distanziamento sociale. Nemmeno più la scuola è occasione e pretesto per uscire di casa. Da casa, dalla propria camera è ormai possibile soddisfare, sebbene in modo virtuale, tutti i propri desideri e bisogni.
Referenze e incisi
[26] Proprio in questi mesi (ottobre 2021) è uscito un film d’animazione della Disney Ron. Un amico fuori programma che ha tratti a mio avviso inquietanti. La storia infatti racconta di come grazie a un piccolo robot (possiamo definirlo un upgrade di uno smartphone), sia possibile farsi degli amici superando la fatica dell’incontro, dei conflitti e delle frustrazioni che le relazioni in carne ed ossa comportano.
[27] Si pensi all’effetto prodotto dal trovarsi tra due specchi, uno di fronte a sé, l’altro alle proprie spalle. La propria immagine viene rispecchiata all’infinito e lungi dal restituirne la sua fisicità, la sua profondità, ne rimanda la sua appiattita illimitatezza. Ma non avere limiti significa non avere un’identità.
[27] Si pensi all’effetto prodotto dal trovarsi tra due specchi, uno di fronte a sé, l’altro alle proprie spalle. La propria immagine viene rispecchiata all’infinito e lungi dal restituirne la sua fisicità, la sua profondità, ne rimanda la sua appiattita illimitatezza. Ma non avere limiti significa non avere un’identità.
26febbraio2022