Alberto Latorre

LA MAPPA NON È IL TERRITORIO: HOMO HOMINI VIRUS
Nell’arco degli ultimi decenni l’iperspecializzazione della medicina e più in generale delle scienze e della tecnica ha prodotto una parcellizzazione dei saperi da un lato e dall’altro una scotomizzazione estrema dell’essere umano.
L’essere umano è sempre meno visto nella sua interezza, nelle sue connessioni tra quello che un tempo era considerata la dicotomia anima e corpo (e che oggi ritorna con la psiconeuroendocrinoimmunologia come tentativo di recuperare tale visione olistica) e ancor meno nelle sue interazioni con l’ambiente in cui vive a partire dalle persone con cui entra in relazione[20], passando per il cibo con cui si alimenta, l’aria che respira, i luoghi che frequenta e molto molto altro ancora e che rientra più in generale nell’ambito dello stile di vita.
Negli ultimi due anni, tale tendenza ha subito un’impennata improvvisa e pericolosa. La finanche morbosa attenzione al virus, la riduzione di ogni possibile discorso alla virologia che, improvvisamente, è assunta a nuova teologia, ovvero come unica disciplina che regola il mondo in ogni suo ambito politico, economico, sociale, educativo, medico, ci ha pesantemente messo davanti alle conseguenze di un ordine del discorso che guarda e parla al mondo da un’unica prospettiva.
La “visione del mondo” virologica ha finito per ridurre gli stessi esseri umani a virus. Paradossalmente, per salvarci dal virus, siamo stati trattati da virus. Tanto che ciascuno di noi è diventato improvvisamente homo homini virus. Tentando di salvaguardare la mera vita organica siamo stati isolati gli uni dagli altri e ridotti noi stessi a virus.
Questi due anni sono la rappresentazione plastica di ciò che molte discipline filosofiche, sapienziali e meditative, nonché quelle psicologiche, insegnano. Ovvero che la Weltanschauung, letteralmente la visione del mondo, vale a dire concretamente il modo con il quale ci si rappresenta il mondo, finisce per diventare il mondo reale. La propria rappresentazione mentale, quella che gli psicologi cognitivi definiscono la “mappa del mondo”, finisce per diventare il “territorio”. Ma la mappa non è il territorio. La mappa descrive una parte del territorio, non lo esaurisce. Non a caso per poterci orientare nel mondo reale, la geografia utilizza carte e mappe diverse, dalle classiche cartine fisiche e politiche a quelle tematiche.
E questo riduzionismo fenomenologico produce effetti devastanti sulla realtà.
In Psicologia della scienza, Abraham Maslow dava una rappresentazione iconografica delle conseguenze di questo processo, utilizzando la metafora del martello. Se infatti – sostiene – si dispone soltanto di un martello, si finirà per vedere chiodi ovunque.
Questo è esattamente quello che è accaduto in questi ultimi due anni. Continuare a vedere virus e morti, trasforma le persone in virus e in untori.
Trasformati in homo homini virus, abbiamo perso la nostra identità sociale e con essa la nostra identità personale.
E se è difficile ritrovarsi dopo aver perso la propria identità da adulti, cosa accade a un bambino e a un adolescente che sta costruendo la propria identità?
10) COSTRUIRE LA PROPRIA IDENTITÀ: IMPATTO SUL MONDO, MASCHERINA, DAD E DISTANZIAMENTO SOCIALE
L’identità di un individuo si costituisce a partire dalle interazioni di due macro-fattori: effettività e rispecchiamento.
Effettività: sappiamo di esistere perché possiamo modificare il mondo
Per effettività si intende la capacità di modificare il mondo attorno a sé. Si sviluppa fin dalla primissima infanzia quando i bambini battono gli oggetti o li lanciano per terra[21]. Queste azioni, che al tempo stesso soddisfano una vasta gamma di bisogni, quali quelli di movimento, e cominciano ad affinare il coordinamento motorio, servono anche in modo serendipico al bambino a capire che lui esiste.
Capisce di esistere perché il rumore provocato dal cucchiaio che batte sul tavolino del seggiolone non esisteva prima che lui battesse l’oggetto. O perché mamma o papà raccolgono ciò che ha buttato in terra e glielo riconsegnano. Il bambino osserva che a seguito di un proprio movimento (il peluche gettato per terra), il papà o la mamma smettono di fare quello che stavano facendo per raccogliere e restituirgli il giocattolo.
Capisce che esiste dal fatto che può modificare il mondo attorno a sé. L’essere umano è – per quanto ci è dato sapere – l’unico essere vivente che non solo, come ricorda Heidegger, sa di morire, ma che sa di poter modificare il mondo.
In questi due anni ai bambini e soprattutto agli adolescenti – per i quali l’orizzonte di riferimento per sperimentare effettività (e rispecchiamento come vedremo in seguito) comincia a essere il mondo esterno, in particolare il gruppo dei pari e non più soltanto la famiglia –, è stata inibita ogni forma di effettività. O, nella migliore delle ipotesi, restituita negativamente, ovvero come la possibilità di incidere sul mondo nei termini di far ammalare e morire i propri nonni e i nonni dei propri amici.
Ancor più che la scuola – ambito in cui l’effettività sperimentata e il relativo rispecchiamento per qualcuno sono negativi e nel quale entrano in gioco altre dinamiche – ciò che è stato tolto ai ragazzi e alle ragazze è stata la possibilità di praticare gli sport e le altre attività ricreative quali danza, teatro, musica, nonché di socializzare con i propri amici e amiche.
Tutte attività in cui, oltre al rispecchiamento di cui parlerò tra breve, gli adolescenti hanno la possibilità di sperimentarsi con un’affettività positiva. Queste attività consentono loro di avere un impatto sul mondo, di modificarlo attorno a sé oltre che di essere visti, ovvero rispecchiati in termini per loro soddisfacenti.
Si pensi al messaggio che circolava mesi fa, in particolare durante il primo lockdown sui social o sulle televisioni: “Ai vostri nonni è stato chiesto di andare a combattere in guerra, a voi di stare seduti sul divano”.
Il punto è che questo messaggio paternalistico e moralista è quanto di più contrario ci sia alla vita, soprattutto di un adolescente. Lottare per il proprio spazio nel mondo, per poter sentire di avere un ruolo attivo che lo modifica, è la caratteristica principale di ogni essere umano, ancor più per un adolescente che proprio attraverso il suo incidere nel mondo ha modo di costruire la propria identità e il proprio ruolo sociale.
I nostri nonni hanno perso la vita combattendo, hanno lottato per un ideale, giusto o sbagliato che fosse. Ed è questo che dà senso alla vita. Lottare e cercare di realizzare qualcosa in cui si crede. I nostri figli invece stanno consumando la vita, o meglio, a loro è stato chiesto di “consumare la vita”, a partire dall’acquistare oggetti, senza fare niente.
Mandare il messaggio “non fare niente” è il preambolo ad un altro pericoloso messaggio: “non puoi fare niente”. Molti ragazzi, e con loro molti adulti, non a caso si sentono impotenti in questa situazione, tanto tra chi ha ceduto al ricatto vaccinale contro voglia, quanto tra chi cerca in ogni modo di resistervi.
L’importanza dell’effettività in questa pandemia, soprattutto per quanto riguarda gli adolescenti, ritorna nel momento in cui è partita la campagna vaccinale a loro dedicata[22].
Il messaggio che l’ha accompagnata è stato quello che chi si vaccina dà il proprio contributo per non fare ammalare e morire i nonni, per poter garantire la ripresa in presenza della scuola, delle attività sportive. Per tornare a potersi incontrare, per tornare a socializzare.
La vaccinazione è stata presentata come l’unica possibilità di tornare ad avere effettività positiva nel mondo – ed essere rispecchiati positivamente come dirò tra poco –, perché l’effettività è stata ridotta a una mera contrapposizione manichea: o modifichi il mondo attorno a te come untore oppure come salvatore. Poco importa se tutto questo è vero, quali siano le possibili infinite alternative, quali siano le reazioni avverse ai vaccini nel breve, medio e lungo periodo, quali siano le modalità ricattatorie, persecutorie e manipolative con le quali si è giunti a ciò [23].
Effettività, alienazione e videogiochi
Dapprima rinchiusi e successivamente costretti a scegliere tra essere degli untori o forzatamente dei salvatori, i giovani in questi due anni hanno cercato di abitare altri spazi in cui poter esercitare la loro effettività. O quanto meno una sua parvenza.
Non deve pertanto sorprendere il fatto che negli ultimi mesi siano aumentati a dismisura tra i giovani le dipendenze dai videogiochi, dispositivi e social.
In particolare, i videogiochi rappresentano un luogo in cui poter sperimentare la propria effettività. Lì i ragazzi, attraverso i propri sforzi, il proprio impegno, possono modificare il mondo. Un mondo certo virtuale, ma sul quale loro possono avere voce in capitolo. In cui magari muoiono o uccidono qualcuno, ma solo in modo virtuale, e mai in modo definitivo.
I videogiochi assolvono pertanto a molteplici bisogni:
· sperimentare effettività;
· esercitare una forma di controllo, di poter decisionale tramite il proprio avatar in un mondo virtuale;
· rimanere in relazione con i propri amici senza il timore di contagiare o essere contagiati;
· nei videogiochi le progressive difficoltà che si incontrano e che si superano consentono di sublimare l’impossibilità di trovare soluzioni a una situazione reale che – come spiegherò in seguito – ha tutte le caratteristiche di un contesto schizogenetico;
· nei videogiochi non c’è tempo per pensare, si agisce di istinto, con rapidità, questo consente di anestetizzare le paure e la sofferenza derivanti da una situazione alienante come quella di isolamento, di quarantena, di DAD, di lockdown;
· i videogiochi di guerra e di combattimento consentono infine da un lato esorcizzare la paura della morte e dall’altro di sublimare l’impossibilità di combattere per un ideale reale.
Essere isolati dal mondo, trovarsi in quarantena, in lockdown chiusi in casa, vedersi solo a distanza o tramite DAD, produce una condizione di alienazione. Letteralmente alienazione significa “essere altrove rispetto a sé”.
Non poter abitare il mondo, essere allontanati dagli altri provoca un allontanamento da sé. L’avatar dei videogiochi è – in questo senso – l’alieno di sé. L’altro di sé.
Il già menzionato Lévinas ricorda l’importanza del volto dell’altro per riconoscere in esso l’altro da sé, mentre con i videogiochi ciò che si conosce è l’altro di sé. Ed è in questa tensione dialogica IO-TU, per dirla à la Martin Buber, che ci si conosce e ri-conosce. È nel dialogo IO-TU che si crea solidarietà, umanità, comunità, non nel dialogo con il proprio avatar o con l’avatar di un altro. Quest’ultimo è in realtà un soliloquio che alimenta l’individualismo, il solipsismo, una sorta di onanistico soddisfacimento del bisogno di relazione.
È ovvio pertanto che questa condizione alienante abbia prodotto tra gli adolescenti gravi conseguenze per quanto riguarda i videogiochi.
Da un lato non ha fatto altro che esacerbare situazioni che già prima erano sul punto di trasformarsi da uso in abuso se non addirittura in dipendenza (game disorder), e dall’altro ha spinto molti ragazzi verso questa china pericolosa, spesso con l’avallo implicito dei genitori che, non sapendo cosa e come fare davanti alla reclusione a cui sono stati costretti i figli, hanno finito con il consentirne l’uso e con il sospendere di fatto ogni forma di limitazione oraria.
Il giocare famelico una partita dopo l’altra in modo frenetico senza nemmeno assaporarne il piacere – come la bulimia – è un modo per riempiere un vuoto enorme[24].
Rispecchiamento: volto, sguardo e sorriso
Sartre sostiene che “lo sguardo dell’altro mi definisce”, Hegel che un’autocoscienza si coglie come tale solo in relazione ad un’altra autocoscienza, Lévinas che il volto dell’altro è la via d’accesso al mondo.
Il nucleo della propria identità è dato dallo sguardo e dal volto dell’altro. Ogni individuo, fin dai primi giorni di vita, costituisce se stesso attraverso l’immagine di sé che vede riflessa nello sguardo altrui. Soprattutto i bambini tendono a diventare ciò che il mondo adulto dice loro di essere. Gli studi in questo senso si sprecano, a partire dal celebre effetto Rosenthal (dal nome dello scienziato che lo ha condotto), più noto come effetto Pigmalione, finendo con il più recente e già citato “Still Face”.
Riprendendo e amplificando gli studi di Margaret Mead, il rispecchiamento fornito dagli adulti di riferimento e successivamente dal gruppo dei pari finisce per costituire il ME, ovvero la percezione di come il mondo “mi vede”. Il ME insieme all’IO (come “io vedo il mondo”), costituisce il SÉ, ossia il nucleo della propria identità.
E fin dalla primissima infanzia, la prima e più potente forma di rispecchiamento è data dal volto, dalle sue espressioni e in particolare dallo sguardo e dal sorriso.
Sperimentiamo ogni giorno e in ogni circostanza come lo sguardo del nostro interlocutore, la sua espressione del viso (teso, rilassato, sorridente, ecc.), ci comunichi in maniera istantanea qual è l’immagine che egli ha di noi.
Volenti o nolenti, a torto o a ragione, consapevoli o meno, ci facciamo un’idea di come l’altro ci immagina, ovvero ci vede, che finisce per incidere nella nostra relazione con lui e in alcuni casi nel nostro modo di fare, se non addirittura – soprattutto da bambini e adolescenti – di essere.
Il volto dell’altro è sia l’altro da noi, come ricorda Lévinas, ma è anche lo specchio con il quale noi vediamo riflesso il nostro IO.
E particolare rilevanza in questo gioco di specchi assumono lo sguardo e il sorriso.
Lo sguardo senza sorriso, come messo in luce da Sartre ne La nausea, è un atto voyeuristico. È lo sguardo, accompagnato al sorriso, che rende possibile la solidarietà, la collaborazione, la socialità.
Il sorriso infatti è un’espressione del volto che condividiamo soltanto con altri due ordini di primati: gli scimpanzé e gli oranghi, animali che come gli esseri umani, a differenza di tutti gli altri, formano gruppi e non branchi.
Il sorriso infatti comunica a livello inconscio due messaggi fondamentali per la socialità: il primo è che sono felice di trovarmi insieme a te (rispecchiamento di conferma, tu non sei un pericolo per me), il secondo è che nemmeno io sono un pericolo per te. Il volto teso comunica infatti una situazione di stress, di tensione, di sofferenza e pertanto di potenziale pericolo o, come nel caso degli animali, i denti digrignati comunicano il tentativo di stabilire un rapporto gerarchico, quanto meno sospetto, diffidenza, intimidazione.
Come spiegato da Goleman nella sua opera più famosa, Intelligenza emotiva, trovarsi di fronte a una persona senza sorriso pone il sistema simpatico – in particolare l’amigdala – in uno stato di allerta e predispone l’organismo a quelle reazioni primarie di sopravvivenza note come fuga, attacco, mimetismo.
Un volto sorridente viceversa disattiva il sistema di allerta gestito dall’amigdala predisponendo il rilascio di ormoni e di neurotrasmettitori che favoriscono il benessere e il rilassamento.
Che cosa comunica dunque un volto coperto da una mascherina?
Il secondo assioma della comunicazione elaborato da Paul Watzlawick in Pragmatica comunicativa recita che “in ogni messaggio si può distinguere un livello di contenuto e uno di relazione, tale per cui il secondo dà significato al primo”.
L’uso delle mascherine comunica inconsciamente due messaggi. Il primo è quello legato a ciò che mostra, quello che potremmo definire il messaggio esplicito, il contenuto, ossia veicolare un messaggio di pericolo (quando non addirittura di omologazione e obbedienza), il secondo legato a ciò che nasconde, il suo messaggio implicito, la relazione, ovvero impedire di percepire il sorriso e con esso l’espressione del volto.
L’effetto composito prodotto da questi due messaggi è in sostanza che l’altro è un pericolo per me e che io lo sono per lui.
Dal punto di vista fisiologico ciò pone l’amigdala in uno stato di costante attivazione che predispone la risposta ormonale tipica delle situazioni di pericolo, mentre dal punto di vista psicologico l’IO si vede rispecchiato nello sguardo altrui, e nel suo volto privato della bocca e dell’eventuale sorriso, come un oggetto pericoloso. Si è appunto ridotti a virus.
Così come l’IO si vede rispecchiato dagli altri, allo stesso modo rispecchia.
Vedere continuamente in ogni circostanza persone con la mascherina, all’aperto, in TV, a scuola, addirittura in famiglia, rispecchia soprattutto bambini e adolescenti (ma vale ovviamente anche per gli adulti), come sub-umani pericolosi, sbagliati, cattivi, potenziali untori e assassini.
La campagna vaccinale ha spinto proprio su questa percezione di sé, promettendo la redenzione da questa condizione peccaminosa e che si sarebbe fatto a meno della mascherina, ossia dell’oggetto che incarna questa idea di sé come persone sbagliate e cattive. Per non essere sbagliati, per non essere visti come sub-umani, è necessario vaccinarsi.
In realtà la mascherina non definisce i cattivi nei termini comunemente intesi, ovvero persona malvagia, quanto nel suo significato etimologico, ovvero come prigionieri.
La mascherina è il marchio, il simbolo concreto di questa prigionia. È lì costantemente a ricordarci la condizione di prigionia. E i prigionieri non possono far altro che obbedire, se non addirittura sottomettersi.
E questo è l’altro rispecchiamento problematico che l’uso delle mascherine – che non nego in determinati contesti al chiuso possa limitare i contagi tra adulti fragili – ha sulle giovani generazioni.
Non soltanto si viene rispecchiati come persone pericolose, sbagliate e cattive, come untori e quindi assassini, ma anche come persone sottomesse se non quanto meno obbedienti.
In chiusura del contributo proverò a ragionare sulle possibili conseguenze combinate di questo rispecchiamento nel futuro di bambini e adolescenti. Quelle presenti sono sotto gli occhi di tutti e sono raggruppate in quei comportamenti definiti Long Covid della mente[25], con cui ci si riferisce oggi giorno al disagio provocato non tanto dal Covid in sé quanto dalla sua gestione schizogena.
Referenze
[20] Un aforisma della psicologia mutuato dalla sapienza buddista recita che noi siamo la somma delle cinque persone che frequentiamo più assiduamente.
[21] Questo processo avviene sia sul piano ontogenetico (ovvero a livello del singolo individuo), che filogenetico, vale a dire nel processo di sviluppo dell’umanità e della civiltà. Si pensi alla celeberrima scena di 2001: Odissea nello spazio, in cui l’inizio della civiltà è segnato da un primate che brandendo un osso lo batte contro lo scheletro di un cadavere.
[22] Sui cui rischi a fronte di benefici irrilevanti rimando ai numerosi studi condotti e pubblicati dalla prof.ssa Sara Gandini e dal suo gruppo di lavoro.
[23] Sono incommentabili le interviste e le dichiarazioni di politici, tecnici e consulenti che parlano di successo della campagna vaccinale riferendosi all’alta percentuale di persone vaccinate senza aver introdotto alcun obbligo.
[24] Sono tantissimi i casi che ho seguito e sto seguendo in questi mesi. E il lavoro per uscire da questa situazione è molto lungo e faticoso per le note implicazioni legate alla dipendenza fisiologica oltre che psicologica che l’utilizzo dei videogiochi e più in generale dei dispositivi provoca.
[25] https://www.facebook.com/sara.gandini/posts/10227434827439113
25febbraio2022